Culture Fotografiche: Hanna Höch, la Dadaista Dimenticata

Che cosa ci insegna la tecnica del collage? Questa è contenuta in un doppio processo di decostruzione e ricostruzione. Dapprima l’artista seleziona nel reale un insieme di immagini e materiali eterocliti. Il suo sguardo cattura i dettagli ed è rapito da forme. Allora la mano, armata di forbici, ritaglia, preleva. Si accumulano i pezzi sparsi di una realtà che non ha più alcun senso ma che si ricarica di nuove potenzialità. Poi l’artista contempla un’altra volta le forme individuate che il suo sguardo eleva a trovata. La scelta è fatta, l’artista si appropria di un supporto e inizia ad assemblare i pezzi di questo puzzle senza modello. Mette in relazione, trova legami e si entusiasma per le dissonanze, giustappone e sovrappone, ricopre e scopre. La colla diventa allora il suo strumento, pur invisibile nel risultato finale.

I frammenti del reale, strappati al loro universo, sono inseriti con la loro storia, le loro proprietà originali, in una struttura mobile che li riconfigura. Riformulazione, risemantizzazione. Si tratta di un’operazione del tipo di quella che si farebbe smembrando una rana e formando con gli organi isolati una farfalla, o una lampada, o una locomotiva, o un oggetto che ricordasse al medesimo tempo farfalla, lampada e locomotiva.

Il materiale di partenza per il fotomontaggio di Höch è spesso costituito da riproduzioni fotografiche di riviste popolari, soprattutto femminili. Höch ha lavorato per Ullstein, un editore di famose riviste d’immagini, notizie illustrate, così che il suo punto di partenza nel processo creativo era costituito dal prelievo di materiale già in circolazione, quindi già presente nelle menti delle persone come parte della loro costruzione della realtà e della sua comprensione del mondo. Questo materiale era l’immaginario quotidiano familiare della Berlino degli anni ’20. Immagini che avevano la propria ragion d’essere nella pubblicità, nella propaganda e nell’intrattenimento e che erano destinati al consumo di massa. Queste immagini circondavano influenzano lo sguardo, il pensiero e il modo d’essere delle persone. Höch ha cambiato queste immagini fotografiche pubblicate restituendole alle persone in una forma diversa, producente pensiero altro rispetto rispetto allo scopo con il quale erano nate.

Per il dadaismo, il collage è la negazione dell’arte o, meglio, la dimostrazione che non esiste l’arte come qualcosa di nobile, ma che qualunque oggetto costruito dall’uomo, proprio perché tale, è frutto della creatività umana e quindi «è» arte. Per i Dadaisti il collage diventa un elemento di critica politica.

Il genio ribelle di Hannah Höch sceglie di esprimersi specificatamente attraverso il linguaggio frammentato e poliedrico del collage; immagini combinate al servizio di una visione del mondo beffarda, ma sensibilmente emotiva che deriva in parte dalla frequentazione di grandi personalità quali Theo Van Doesburg e Moholy-Nagy. Ne risulta una satira stridente e amara che non risparmia temi controversi della vita pubblica e privata, con particolare interesse per i concetti d’identità e genere, già vicini a tematiche del successivo pensiero femminista.

Molti dei suoi fotomontaggi si basano sul dualismo pubblico/privato, maschile/femminile e politico/personale, anticipando di quasi mezzo secolo lo slogan «the personal is political» tanto caro alle femministe negli anni Sessanta-Settanta. Gli inquietanti segnali d’intolleranza razziale, l’abbattimento delle libertà espressive col disprezzo conseguente per la democrazia, l’amplificarsi delle tensioni revansciste e xenofobe, con l’ossessione per un’idea d’espansionismo imperialista convertita in dispositivo demagogico di consenso sulle masse, e infine la deriva bellica, costituirono riferimenti  che convogliarono sull’artista un’avvertita urgenza di rinnovamento morale e l’ininterrotta volontà di difendere le conquiste storiche dei ceti popolari secondo i dettami del proprio credo politico.

In un’intervista rilasciata negli anni ’50, la Höch ammetteva che il movimento tedesco (Dada) era stato di gran lunga più politicizzato di quello svizzero o francese, infatti, aggiungeva, “stavamo vivendo all’interno di quell’ordine sociale responsabile di quella disastrosa guerra e che ora stava collassando per via della sconfitta imminente e del crescente malcontento delle masse che si manifestava con ammutinamenti al fronte e scioperi ovunque nel paese”. Per quanto riguarda l’accusa di proselitismo comunista, mossa al gruppo da una certa destra, la Höch specificava «eravamo giovani che non avevano mai creduto nella giustezza dell’interventismo tedesco: per questo motivo ci affidammo ad una dottrina nuova, il Comunismo, del tutto avulsa dal potere che conoscevamo allora e che ci prometteva in modo abbastanza sincero un futuro migliore». Nei suoi lavori sono ricorrenti personaggi femminili famosi: in Indian Dancer: From an Ethnographic Museum (1930), la Höch sovrappone al più struggente dei primissimi piani che il regista Dreyer dedica alla sua sofferente Giovanna d’Arco alcuni ritagli di carta raffiguranti una bocca amorfa che impedisce alla donna di esprimere tutto il dolore che prova. 

Indian Dancer rappresenta la nuova donna tedesca, formalmente emancipata, ma che in realtà resta ancora legata al focolare, come indica la corona posticcia fatta di posate di plastica che le incornicia il viso, combindo le immagini di una maschera camerunese e il volto della star del cinema muto Maria Falconetti, sormontata da un copricapo composto da utensili da cucina. L’unione di Höch di una maschera africana tradizionale, un’iconica celebrità femminile e strumenti di domesticità fa riferimento allo stile del teatro e della moda d’avanguardia degli anni ’20 e offre un commento evocativo sui simboli femministi del tempo. In Dada Review, che insieme a Cut with the Dada Kitchen Knife through the Last Weimar Beer-Belly Cultural Epoch in Germany (entrambi 1919) è certamente il lavoro più politicizzato dell’artista, i frammenti di frasi distribuiti qua e là sulla tela assumono significati satirici: si fa ad esempio riferimento al diritto di voto femminile e al rapporto della Germania con gli Stati Uniti, dove la testa dell’allora presidente Wilson è appiccicata su un corpo di ginnasta.

Attraverso queste giustapposizioni, in linea con lo stile di Grozs, la Höch riesce a descrivere uno stato sempre meno democratico. In We Are All Neurasthenics, Brigid Doherty traccia un collegamento tra lo stile sincopato e frammentario di Hannah Höch e le numerose problematiche psicologiche e psichiatriche patite dai soldati tornati dal fronte della Prima Guerra mondiale. Furono proprio tic, paralisi, tremori, mutismo, sordità, urla incontenibili, depressione, ansia e terrori notturni ad ispirarle quelle particolari tecniche di montaggio. Del resto, una delle volontà degli artisti del gruppo era di procurare al pubblico quelle stesse sensazioni raccapriccianti patite al fronte. George Grosz e John Heartfield, nel 1920, con la provocazione Preußische Erzengel, non solo sconvolsero tutti, ma vennero anche citati in tribunale per ingiuria verso le forze armate. L’installazione prevedeva che un fantoccio di pezza vestito da soldato, ma con la testa di maiale, penzolasse dal soffitto ricordando un dissacrante arcangelo con al collo un cartello raffigurante un vecchio generale dell’esercito che sorridendo diceva «Gott mit uns» (Dio è con noi). Che questa corrente artistica traesse spunto dalla carta stampata e dal cinema lo prova anche un quadro metafisico che la Höch produsse nel 1920 e che ricorda per la presenza di intricati oggetti meccanici, funi, cavi e ingranaggi, le scenografie del coevo film espressionista Das Cabinet des Dr. Caligari, in cui un binario ferroviario procede a zig zag verso la cima di una collina.

I collages di Hannan Höch, giocano sull’effetto dinamico della loro composizione, dove il senso del piano, la scala e lo spazio sono costantemente rimessi in causa, giocano sull’impatto delle lettere e delle parole disseminate qua e là nelle opere, come degli slogan, degli urli e degli ordini. Il collage della Höch, consente un avanzamento nell’investigazione dello spazio, analizzando l’immagine e il suo funzionamento. L’opera finale è il superamento della sommatoria delle singolarità che la costituiscono.

Ha sapientemente unito fotografie o riproduzioni fotografiche ritagliate da riviste popolari, riviste illustrate e pubblicazioni di moda, ricontestualizzandole in uno stile dinamico e stratificato. Ha osservato che “non ci sono limiti ai materiali disponibili per i collage pittorici, soprattutto possono essere trovati nella fotografia, ma anche nella scrittura e negli stampati, anche nei prodotti di scarto”.

Le audaci collisioni e combinazioni di frammenti d’immagini ampiamente diffuse di Höch collegarono il suo lavoro al mondo e catturarono lo spirito ribelle e critico del periodo tra le due guerre, che a molti sembrava una nuova era. Attraverso le sue sperimentazioni radicali, ha sviluppato un linguaggio artistico essenziale dell’avanguardia che risuona ancora oggi. Hannah Höch ha continuamente denunciato gli oltraggi di una società sessista e misogina, ha parlato apertamente di androginia e amore lesbico, che ha conosciuto in prima persona perché considerava la bisessualità una forma di libertà.

Viviamo un’epoca piena di oscure paure e di laceranti divisioni in Europa e nel Mondo; è proprio in questi momenti della storia che Brecht definiva “bui”, nei quali il mondo della Cultura può e deve rendere un omaggio sincero ad una donna sensibile, che riversava nei disegni e nei dipinti tutto l’orrore, quale solo una donna può sentirlo, e l’odio per la guerra e per ciò che essa comporta di miseria, di fame, di morte e di dolore.