Il Caso Gioli: Anatomia di un Artista Postmoderno?

… Questo lavoro di Paolo Gioli è un tentativo laborioso di circuire il tempo perduto, o meglio, il tempo ritrovato che minaccia la nostra memoria. L’opera non ha ricordo, ma memoria; il passato non esiste, ma resta il presente; memoria e presente; memoria e presente si combattono a vicenda; resta solo, dentro l’imbuto dell’inconscio un fitto eterno presente dentro una finta memoria. Posto così il problema, in maniera scorrettamente languida, irrazionale, si direbbe che la chiave per interpretare questo lavoro non è di questo mondo. Ha il sonno dei nomadi, riverso nel letto in un sonno presente, eppure ha parlato, come un fanciullo dormendo.

Forse esagero; ma non è il lavoro che dorme come un fanciullo: è la sensazione del lavoro. Sì, questo lavoro non è di questo mondo, ma di un altro mondo dove non c’è passato e tempo perduto o ritrovato. C’è sola, unica, austera, felice, legittima, calda come una colomba giovane e sprezzante, la Morte. Un lavoro come segno terribile dell’Apocalisse moderna che vuole essere un omaggio alla morte e ciò che la morte sfigura: la perdita della bellezza, la fine della giovinezza. Come fine che non ha principio, laico e materialista e senza speranza l’approdo di questo lavoro dolente è il più alto omaggio che io abbia incontrato alla idea del tempo e della maschera del Tempo.

Sovrapposizioni di due scritture, due facce: l’una esterna, prominente, luminosa, l’altra interna, scavata notturna. Il dramma lo si raggiunge mirando alla loro congiunzione; cioè a rendere trasparente la materia che la compone, perché la verità, già portata alla luce, sgorga anche dalla profondità del sogno. Tale maschera ci offre un modello concreto della struttura umana nella sua doppia costituzione: esprime questa frattura fra due regni conscio e inconscio che l’Arte – come tragedia – ha finalmente il compito di unificare. Se prima la maschera nominava chiaramente, distintamente l’essere stesso di cui dissimulava il viso, ora dissimula, ripudia in qualche modo definitivamente la sua vera natura attraverso un’occultazione dei tratti, fino all’indistinto, quell’irriconoscibile che continua ad inquietarci.

L’opera d’arte prende forma come esperienza individuale e collettiva da aspirazioni, attese, conoscenze, contesti che ne determinano profondamente i modi e le forme. Nello stesso tempo l’opera d’arte impone o suggerisce la creazione di mondi e talvolta, con la sua suggestione narrativa, arriva a restituire ai suoi luoghi di origine imprevedibili energie di mutamento e inseparabili possibilità di senso. L’arte sta in questa oscillazione, sfida di pensiero e impone di tenere aperta la domanda sulla sua natura e sul senso che può di volta in volta acquisire. Il confine di un’opera d’arte non sta nell’opera, ma si estende agli occhi e alla sensibilità di chi la guarda. L’opera d’arte è essa stessa quindi collettiva nella sua stessa, intrinseca esistenza.

Gabriele Agostini